Testi Critici

Anna Caterina Bellati

Di Forme e Paesaggi

 

Bianco e nero sapienti. Più ombre che luci. Alberi e oggetti dimenticati. Luoghi in rovina e montagne sontuose. Rocce millenarie piantate nel mare del Nord, ultimo faro del mondo.

Vigoni impiega la geometria di un paesaggio cogliendone i simboli spaziali e trasformandoli in segnali di tempo. Come una cima montuosa a margine dell’orizzonte, baluardo anticipatore del cielo; o un vecchio muro di casa colonica smangiato dagli anni che diventa quinta scenografica.

Lo scopo è annullare la distinzione tra percezioni reali e immaginazioni illusorie. Questo permette, a chi si immerga nelle sue fotografie, di attribuire un pari valore a tutte le informazioni visive che arrivano dapprima negli occhi e poi nell’anima.

Il suo lavoro, pur mantenendo il rigore formale nella costruzione di uno scatto, ha come obiettivo lasciarsi alle spalle le categorie ufficiali di quest’arte che fin dalla sua apparizione è stata classificata quale “riproduzione del vero”. Ma Vigoni guarda oltre, ispirandosi semmai al Mario Cresci degli Avvistamenti, quando il grande fotografo, nato a Chiavari nel 1942, dirigeva l’Accademia Carrara di Bergamo. La sintesi del giovane fotografo milanese, avvalendosi della sovrapposizione di scatti relativi a luoghi diversi, una campagna quasi sotto traccia e la facciata di una casa; una piccola fontana di pietra galleggiante in verticale su una marina mossa dal vento; giunge a superare le forme contenute nel lavoro finale senza avvalersi delle suggestioni dettate dalla pittura o dalla scultura, ma costruendo un palcoscenico di splendore-spazio-emozione capace di narrare storie private come racconti corali.

 

 

 

Roberto Mutti

MULTIVERSO – La Natura come contemporaneità

 

Le fotografie di Marcello Vigoni possiedono la singolare caratteristica di essere marcatamente contemporanee nel linguaggio senza per questo negare gli elementi di una classicità che emerge da una precisa consapevolezza concettuale prima ancora che compositiva. In questo modo emergono tutte le potenzialità insite nella fotografia analogica in bianconero le cui tante variabili ben si prestano a un’indagine che emerge con la stessa lentezza carica di meraviglia con cui una stampa si rivela nella bacinella dello sviluppo. Di fronte a questi risultati bisogna abbandonare la tentazione di chiedersi dove le fotografie sono state scattate e qual è il soggetto ripreso perché l’autore non ci ha portato in qualche luogo preciso ma nella sua – e un po’ anche nella nostra – mente. Marcello Vigoni fa un uso sapiente della dimensione del surrealismo come è evidente in un’opera che si rivolge all’osservatore in un dialogo serrato dove la domanda se a essere ripresa è una grande cassettiera da archivio o il paesaggio naturale che gli si sovrappone non pretende, come già spiegato, una sola risposta. Meglio, infatti, socchiudere gli occhi e lasciare che sia la fantasia a suggerirci di trovarci nell’archivio dei sogni e che quell’albero imponente sia forse saltato fuori da uno dei cassetti e quelle nuvole bianche siano sfuggite dalla fessura di un altro. La dialettica fa capolino anche quando l’autore ricorre al simbolico con un soggetto, le scale: ce n’è una che si proietta verso l’alto come volesse raggiungere il cielo mentre altre sono una successione di gradini che dall’alto sembrano condurre a un fondovalle. Ma, ovviamente, tutto può essere letto in direzione opposta perché – come ricorda il grande filosofo dell’antichità Eraclito di Efeso – la strada che sale è identica a quella che scende e a definirle come tali è il nostro punto di osservazione. I paesaggi montani sono una costante ma quasi mai compaiono come tali, sono piuttosto proiezioni piene di fascino che si ritrovano su pareti, facciate di case, muri sulle cui superfici vissute confondono il loro plastico inseguirsi di vette, canaloni, vallate. Più si avanza nel percorso immaginifico costruito labirinticamente da Marcello Vigoni più si scoprono improvvise presenze cariche di rimandi simbolici, metaforici, onirici: ci sono finestre inchiavardate nel celo, porte che si chiudono, specchi emblematici, oblò che invitano a guardare verso chissà quale oltre. Anche gli oggetti compaiono improvvisi come in un teatro dell’assurdo: un ombrello mezzo aperto allude alle ali – che ali non sono – di un pipistrello, un abito si agita nel nulla, un candelabro assume inquietanti forme antropomorfe, un telefono a gettoni sembra chiedersi se abbiamo ancora voglia di utilizzarlo, un orinatoio non sembra aver voglia di giocare con Duchamp. C’è solo quella tenda appena scostata che ricorda i fondali usati dai fotografi in un passato non troppo lontano per i ritratti mentre l’albero illuminato dalla luce che spiove dall’alto, quello sembra proprio mettersi in posa.